Forse su “Verso le stelle glaciali” di Tommaso Di Dio (interlinea).

«Il viaggio del poeta comincia sempre da una solitudine. E Di Dio è un poeta, un poeta che, con l’immagine della parola, con il bisturi dello sguardo, opera la chirurgia delle solitudini, senza anestesia per chi legge. Sono istantanee, Polaroid di silenzi di vite che non sanno e non possono sopportare il peso estremo del destino, che non si accorgono dell’altro, che è lì vicino, che è proprio lì, accanto, con lo stesso dolore, algido, metallico come le atmosfere urbane dentro il quale capita (“volevo far emergere quanto la solitudine rappresenti una forma di esclusione”, spiega Di Dio, “l’apparire di qualcosa che, pur accadendo vicino a noi, ci esclude: ci riduce al silenzio”), solitudini indifferenti alla propria stessa vivenza, che si trascinano nei bar, nella metropolitana, nei supermercati, nello stesso ospedale dove l’amico vive una morte innocente, che buttano quel che rimane dentro una corda, impiccandosi, straniero senza asilo, alla stazione, in uno dei tanti che Max Augè chiama “non luoghi”. E la scrittura insegue quel vuoto, quel silenzio, si sottrae, lascia tutto al campo ottico, si ritira dietro lo sguardo e lascia vedere quello che si lascia vedere, senza violare il pudore rassegnato della disperazione.»
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Verso le stelle glaciali
di Tommaso Di Dio
editore: Interlinea
pagine: 160
Quattro itinerari poetici per perdersi tra sogno e realtà.
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