Il caso Dylan secondo il suo traduttore, Alessandro Carrera per il secondo episodio del podcast Interlinea. Scrivere il futuro tra le righe della storia
Il 19 giugno 2020 Bob Dylan, che va verso gli 80 anni, fa uscire il nuovo disco di inediti, Rough And Rowdy Ways. La carriera del premio Nobel per la letteratura 2016 è lunghissima: tante volte sembrava finita e invece ha ripreso il volo. E oggi? Dylan ha ancora qualcosa da dire? C’è chi lo ascolta davvero? Ne parliamo con Alessandro Carrera, scrittore, saggista, traduttore e cantautore italiano, insegnante all'Università di Houston in Texas che per Interlinea ha curato di Parole nel vento. I migliori saggi critici su Bob Dylan, per ragionare sulle origini di una leggenda della musica in grado di scalare le classifiche internazionali con canzoni che affondano le loro radici nel rock’n’roll, blues e folk, nella Bibbia e nei classici, sfuggendo a qualunque legge di mercato e illuminando storie nell’interlinea dell’attualità.
Sono migliaia gli articoli è le testimonianze su Bob Dylan che si sono accumulati sulla stampa mondiale a partire dal 1961, quando Dylan fece il suo debutto a New York come folksinger. Oggi Dylan è ancora una forza artistica trascinante e con l'ultimo album Modern Times (2006) è stato capace di scalare le classifiche internazionali con una sequenza di canzoni che affondano le loro radici nei blues e nel Folk, nella Bibbia e nei classici, e che sfuggono a qualunque legge di mercato. Tra l'immensa produzione critica dedicata a Dylan, Alessandro Carrera ha selezionato dodici saggi, tutti inediti in Italia, attraverso i quali vengono scandite le tappe di una carriera straordinaria. Dal primo profilo dylaniano apparso sul "New Yorker" nel 1964, fino a un saggio su Dylan come maestro dell'arte della memoria, pubblicato nel 2006, emerge un ritratto multiplo ed esteso nel tempo, la biografia intellettuale a più voci di uno dei più significativi artisti del nostro tempo.
"Io sono le mie parole" ha scritto Bob Dylan: in occasione dei suoi settant'anni Giovanni Cerutti, con il volume Play a song for me, ha raccolto le testimonianze di compagni di strada (come Joan Baez, innamorata di "lui e la sua chitarra e le sue splendide, sconnesse, mistiche parole", Allen Ginsberg e Fernanda Pivano) e di chi è cresciuto con le sue canzoni (da Richard Gere a Bruce Springsteen, per il quale è stato "il fratello che non ho mai avuto"). Non mancano i cantautori come De André e Guccini ("Dylan è le nostre idee di allora, le nostre discussioni di politica e di musica"), con una canzona tradotta da Patrizia Valduga e testi di Stefano Benni e Carlo Feltrinelli, senza dimenticare il rapporto di Dylan con Obama, di cui parla scrive Carrera: "Hey! Mr. Tamburine Man, play a song for me!". Con una divertente e semisconosciuta finta lettera scritta dallo stesso Dylan alla madre della Baez, riemersa dai cassetti della Folksinger.
Di seguito pubblichiamo un'estratto del volume con la testimonianza di Bruce Springsteen:
BRUCE SPRINGSTEEN
Il fratello che non ho mai avuto
La prima volta che ho ascoltato Bob Dylan ero in macchina con mia madre, e stavamo ascoltando, mi sembra, la stazione radio di New York, WMCA, e da Like A Rolling Stone arrivò quel colpo di batteria che suonava come se qualcuno avesse spalancato la porta della tua mente. E mia madre, che non era ostile al rock and roll, le piaceva la musica, ascoltava, aspettò un minuto, mi guardò e mi disse: «Questo qui non sa cantare». Ma sapevo che si stava sbagliando. Io non dissi niente, ma sapevo che stavo ascoltando la voce più potente che avessi mai sentito. Era insinuante, suonava in qualche modo allo stesso tempo giovane e adulta, e corsi subito a comprare il singolo. Tornai a casa, corsi a casa, e lo misi nel mio mangiadischi, e deve esserci stato un errore di fabbrica, perché uscirono le note di una canzone di Lenny Welch. L’etichetta era sbagliata, così corsi indietro, lo presi, lo misi su, poi uscii e presi Highway 61, e fu tutto ciò che ascoltai per settimane. Guardavo la copertina, con Bob, con quella giacca blu satinata e la maglietta della Triumph. E quando ero un ragazzo, la voce di Bob in qualche modo mi elettrizzava e mi spaventava. Mi faceva sentire una specie di innocente irresponsabile. E così è ancora adesso. Ma raggiungeva e toccava la conoscenza del mondo che poteva avere un ragazzo di quindici anni che andava al liceo nel New Jersey di quel tempo. Dylan era un rivoluzionario; così come Elvis aveva liberato i nostri corpi, Bob liberò le mostre
menti. E ci ha mostrato che anche se la musica era un fenomeno essenzialmente fisico, non significava che fosse incompatibile con la dimensione intellettuale. Ha avuto la visione e il talento di espandere la canzone fino a farle contenere il mondo intero. Ha inventato un nuovo modo in cui un cantante pop potesse esprimersi. Ha infranto i limiti dei risultati che un artista che incide dischi può raggiungere, e ha cambiato per sempre la faccia del rock and roll. Senza Bob, i Beatles non avrebbero fatto Sergeant Pepper, forse i Beach Boys non avrebbero fatto Pet Sounds, i Sex Pistols non avrebbero fatto God Save the Queen, gli U2 non avrebbero fatto Pride in the Name of Love, Marvin Gaye non avrebbe fatto What’s Goin’ On, Grandmaster Flash forse non avrebbe fatto The Message e i Count Five non avrebbero potuto fare Psychotic Reaction. E non ci sarebbe mai stato un gruppo chiamato gli Electric Prunes, questo è sicuro. Ma il fatto è che, fino a oggi, dove viene fatta grande musica rock, si stende ancora e sempre l’ombra di Bob Dylan. E lo stesso lavoro recente di Bob è stato
ingiustamente sottovalutato perché è costretto a rimanere in quell’ombra. Se ci fosse un giovane scrittore di canzoni da qualche parte in grado di scrivere Sweetheart Like You, o l’album Empire Burlesque, oppure Every Grain Of Sand sarebbe definito il nuovo Bob Dylan.
Questo è quanto di carino ho messo giù da dire di lui. Circa tre mesi fa, stavo guardando la tv, e andò in onda uno speciale sui Rolling Stones, e Bob arrivò ed era di un umore irritabile, così sembrava. Brontolava e si lamentava del fatto che i suoi fans non lo conoscevano, e che nessuno lo conosce. E che se lo incontrano per strada, lo trattano come un fratello perduto o qualcosa del genere. E, parlando da fan, penso che quando avevo quindici anni, e ascoltai Like A Rolling Stone, ascoltai qualcuno che non avevo mai sentito prima e non avrei mai sentito dopo. Uno che aveva il coraggio di sfidare il mondo intero, e mi faceva sentire come se anch’io avessi avuto le palle per farlo. E forse qualcuno ha male interpretato quella voce,
credendo che in qualche modo tu stessi facendo il lavoro per loro. E come impariamo, man mano che invecchiamo, non c’è nessuno che può fare il lavoro per nessun altro. Così, stasera sono solo qui per dire grazie, per dire che non sarei qui senza di te, per dire che non c’è un’anima in questa sala che non ti deve i suoi ringraziamenti. E, per rubare un verso dalle tue canzoni, che ti piaccia o no, «you was the brother that I never had» (“tu sei stato il fratello che non ho mai avuto”).
SEGUI IL PODCAST
Ascolta sul sito
Inserisci un commento