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La bellezza del mondo. Andrea Zanzotto

La bellezza del mondo. Andrea Zanzotto La bellezza del mondo. Andrea Zanzotto
La bellezza del mondo. Andrea Zanzotto

Da "Doppiozero" Marco Martinelli sull'intervento di Roberto Cicala a "Zanzotto100", in occasione del centenario del poeta

Ero lì a presentare per “Zanzotto 100” Nel nome di Dante, che ho pubblicato un paio di anni fa per Ponte alle Grazie, a dialogare di “teatro e poesia” con lo scrittore, drammaturgo e giornalista Gianluca Favetto, ospiti del vulcanico Paolo Verri, presidente (tra le altre cose) del Comitato Nazionale per il centenario di Andrea Zanzotto, e del vice sindaco Luisa Cigagna, che mi racconta l’origine della scritta “educa e spera”, voluta dall’allora sindaco Antonio Schiratti, una figura importante nella storia di Pieve di Soligo, un “riformatore”, cultore fervente dell’istruzione popolare, che con lungimiranza, dopo l’Unità d’Italia, sostenne l’educazione delle classi più povere, e in particolare delle donne.   

Dopo il dialogo con Favetto, e prima di tornare a Ravenna, resto ad ascoltare il bell’intervento di Roberto Cicala, studioso e editore – Interlinea Edizioni Novara – che racconta con ironia le avventure di un editore di poesia in un mondo che della poesia sembra non volerne sapere, le diverse fasi che vanno dalla “scoperta” di questo o quell’ autore fino al confronto finale con il mercato e la sua disattenta spietatezza. E mi risuona ancora in testa il motto: “educa e spera”. Anche l’editore di poesia scommette, fatica, semina, e poi aspetta. Sorridente. Sa che la partita è ad armi impari, ma che, come i suoi poeti, non può non giocarla. Alla fine, nel salutarci, mi regala un prezioso libretto, Ascoltando dal prato, a cura di Giovanna Ioli, pubblicato da Interlinea dieci anni fa, “divagazioni e ricordi” fissati da Zanzotto poco prima di morire. E vi trovo pagine splendide (pp. 11-12) in relazione a Dante, che qui riporto integralmente.

“A parte le varie guerre, che sono sempre il peggiore degli inferni, io lo rappresenterei l’inferno su questa terra in quel gruppo di malfattori che governano la finanza internazionale. La speculazione del capitale finanziario si estende sulle materie prime e crea un vortice che poi travolge tutti, talvolta gli stessi responsabili di quel vortice. In altra forma c’erano anche ai tempi di Dante, che ha espresso l’indicibile della cosificazione, il punto estremo del disumano. Nell’esperienza della quotidianità, poi, ci sono gli inferni della psiche devastata. Sono i singoli casi, in cui il vissuto di certi malati supera tutte le fantasie di terribilità. L’Inferno di Dante è allucinante. Sembra scritto da un surrealista. Penso per esempio agli usurai (“in una borsa gialla vidi azzurro / che d’un leone avea faccia e contegno”, XVII 59-60). Viene fuori la difficoltà di staccare gli occhi da quella allucinazione azzurra. Trasporta la vitalità sul colore e sono colori che bucano la tela. Poteva scriverlo Breton. Il Paradiso l’ho sentito molto, ma il mio è una specie di sottoparadiso incerto e le luci della mia poesia potrebbero anche essere i bagliori di Caina. Sia il mito della selva oscura in cui tutto si confronta in reciproche sopraffazioni, sia quello di una selva quasi edenica, ove un certo equilibrio fra uomo e ambiente, saggiamente salvaguardato, darebbe luogo ad eleganti sistemi di simbiosi, sembrano oggi impraticabili. Si sa benissimo quale demoniaco ciclone ci stia portando alla deriva, uomini e foreste e tutto. In questi anni ho cercato tutti i punti in cui più Dante sale più usa metafore che si rifanno all’infanzia, per indicare il ritorno all’origine del dire e l’impotenza dello scrivere. La poesia cerca di trasumanar e solo Dante è riuscito a farlo per verba. Certo, anche Dante riconosce che per scrivere il Paradiso bisogna staccarsi dalla terra. Io credo che parlando di “erba” all’inizio della terza cantica alludesse addirittura alla droga, un’erba che sovrumanizza: “Nel suo aspetto tal dentro mi fei, / qual si fé Glauco nel gustar de l’erba / che ‘l fé consorto in mar de li altri dèi” (Par. I, 67-69). In molti luoghi della Commedia si può cogliere un’allusione di questo genere. Per me l’erba necessaria non è lo spinello, come per molti giovani poeti. Droga per me è al confine dell’eros, è questo mio paesaggio che trasuda sangue, che mi incalza con la sua bellezza e ora con la devastazione orribile cui è soggetto. Avverto un sentimento per un colore, un profilo collinare, così violento che mi sembra di stringere una persona tra le braccia. In un paesaggio che conosco tanto bene ormai, ogni tanto scopro una nuova stradina, che mi offre nuove prospettive e l’ordine è di nuovo sconvolto. E anche nei sogni incontro di queste stradine. Una volta le sognavo spesso, ora molto meno”. 

 Andrea Cortellessa, critico letterario e storico della letteratura italiana, anch’egli presente alla manifestazione di Pieve di Soligo, al quale dobbiamo altri importanti convegni su Zanzotto che si terranno quest’anno in Italia e all’estero, da Parigi a Oxford, ragionando sul gemellaggio tra l’Alighieri e Zanzotto, li ha definiti “poeti per tutti e per nessuno”, capaci di far cantare il fabbro per le strade e al tempo stesso di affascinare teologi e filosofi di tutto il mondo. Poeti “dei contrari” quindi, fisici e metafisici, che tengono insieme “e cielo e terra”. E nell’abbandonare le alpi bellunesi per avviarmi sulla Romea che costeggia il delta del Po e tornare a Ravenna, guardo a quei monti ancora con le parole di Zanzotto, a p. 62 di Aspettando dal prato

 “Che cosa sono quei “confini dei monti”, profili accavallati su profili, che Holderlin identifica con le linee della vita di ognuno, diverse ma ingarbugliate insieme?”  


LEGGI L'ARTICOLO

 

Ascoltando dal prato

Divagazioni e ricordi

di Andrea Zanzotto

editore: Interlinea

pagine: 112

In occasione dei novant’anni del maggiore poeta italiano vivente ecco una raccolta di testi e ricordi in gran parte inediti su aspetti legati alla vita di Andrea Zanzotto

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