Nacqui nel Salvador, piccola nazione del Centroamerica, nella provincia di Usulutàn, da una famiglia modesta. Mio padre lasciò la famiglia quando io avevo cinque anni.
Eravamo cinque fratelli. Mia madre, ostetrica, capì ben presto che se fossi rimasta con lei per me non ci sarebbe stato futuro e soprattutto che non avrei potuto studiare. Perciò, a malincuore, decise di separarmi da sé per affidarmi a una famiglia molto ricca, gli Avilas.
All’inizio ebbi un forte moto di ribellione, un rifiuto feroce. Solo dopo molti anni capii che mia madre, soffrendo terribilmente, mi aveva separata da sé per amore.
Gli Avilas erano una famiglia di medici e avvocati, avevano altri figli e mandarono anche me nel miglior collegio del Salvador.
Crescendo, mi accorgevo sempre più della grande ingiustizia che regnava nel mio Paese: erano infatti gli anni della dittatura, che mise in atto una feroce repressione contro i contadini, i coloni come mio padre. I militari erano comandati dal generale Carlos Humberto Romero che, attraverso la cosiddetta riforma agraria, confiscò tutte le proprietà, lasciando nella totale indigenza migliaia di famiglie come la mia.
Sentivo forte la rabbia per queste ingiustizie e a tredici anni decisi di scappare dal collegio perché non sopportavo il contrasto tra la mia vita tranquilla e opulenta e la miseria e la disperazione che avevo intorno. In questo mi aiutò José: l’uomo che sarebbe poi diventato mio marito e che incarnava la lotta contro il potere. Era deciso e leale, pronto a dare la vita per il suo ideale che di conseguenza divenne anche il mio. Spesso ci incontravamo di nascosto, in modo rocambolesco, sotto le mura del collegio. La sua famiglia di ricchi farmacisti lo aveva destinato al seminario, ma lui se n’era andato e frequentava l’università. Ci fidanzammo, poi ci sposammo di nascosto in un rifugio e ci stabilimmo a casa di uno zio.
Con lui iniziai a praticare la lotta sindacale attraverso la protesta e la denuncia, ma sempre più spesso ci trovavamo a contare i corpi dei nostri amici straziati dalle torture, a volte anche decapitati per confondere la loro identità. Ai preti gesuiti, molto colti, che difendevano la popolazione, venivano inflitte torture orribili. La protesta, quindi, non funzionava: decidemmo perciò di intraprendere la lotta armata, ci autotassammo e acquistammo parecchie armi.