Una donna che racconta altre donne: frammenti di storie intorno a versi di Kahlil Gibran per dire dell'esperienza della maternità, e della sua faccia oscura: la maternità rifiutata, l'aborto. Dieci citazioni fanno da canovaccio a questo libro, che combina prosa e poesia, inserti di cronaca, testimonianze e citazioni per ricostruire altrettanti microcosmi che nell'insieme vengono a costituire il quadro compiuto di un "poema" o, se si preferisce, di un "romanzo". Senza cedere un solo millimetro al relativismo, non è lasciato spazio agli stucchevoli auto-compiacimenti del "tutto è bene quel che finisce bene" e neppure alle polemiche sulle eterne questioni di principio (per le quali c'è sempre tempo). Piuttosto, da donna, Antonella Diegoli è attentissima al tema della dignità femminile, ripetendoci che il dramma della vita si gioca sui chiaroscuri più che su tonalità nette e invincibili.
Un brano del libro
Per arrivare all’alba non c’è altra via che la notte
Mi sono svegliata all’improvviso
E sono rimasta a fissare il buio.
Improvvisa la certezza:
tu esistevi.
Uscito dal nulla
c’eri.
Annidato
da qualche parte
non prima,
ora
esistevi.
Le sembrava di essere tornata adolescente, quando, tra le mani quella lettera, si scioglieva in pianto. Ma ora le parole che salivano alle labbra erano diverse, erano sue! Formatesi su quelle che tanto l’avevano colpita, affiorate dal buco nero della sua memoria, scolpite dalla sua angoscia… Come proseguiva la lettera? Ma era ancora la sua voce quella che dava forma a parole nuove
E il cuore si è fermato.
Nel buio terrore
sono precipitata.
Freddo colare d’angoscia.
Il cuore
impazzito
riprende colpi
suonano dentro
nel vuoto
dell’anima.
Perduta.
Sono.
Le prove erano andate, finalmente. Finite.
Abbandonato il grembo nero del teatro – “ventre” lo
chiamava Testori – poteva tornare.
Ma come si era sognato di dare voce a un grumo di cellule,
come aveva potuto attaccare così in profondità l’essere
donna e in modo tanto crudele, facendola pensare che fosse
davvero qualcuno?
Tutte le sere doveva sentirle, ripetute dall’attore che
dava voce al figlio non voluto, con cadenza non sempre
libera dall’accento, ugualmente torturanti.
Senti, madre?
Sono in te…
[…]
Sì, son vita.
Madre,
mamma,
a te m’aggrappo!
[…]
Madre no, non ascoltare.
Madre no, non accettare.
Devi amare,
me formare.
[…]
Madre?
Ascolta,
madre cara:
sarai culla?
sarai bara?
Factum est… Così si chiama… Ma c’era qualcosa che aveva a che fare col catechismo che diceva così, non ricordava più. Factum est. A lei il latino non era mai piaciuto, troppo difficile, ma questo lo capiva: è fatto… Chi è fatto, un piccolo grumo di cellule? E cos’era fatto? Un essere umano nuovo, un altro da sé. Questo lo sapeva e senza bisogno di latino o di Testori o di Oriana Fallaci.
No, lei non avrebbe dovuto accettare di fare quello spettacolo. Era davvero un dramma partecipare alle prove come se nulla fosse, nascondendo tutto dietro il solito sorriso sicuro, mentre le mani raccoglievano i lunghi capelli setosi in morbida crocchia. Lo spettacolo parlava della vita. Raccontava le emozioni, i sentimenti di alcune donne dall’attimo in cui la vita entra nel loro corpo, raccontava dello smarrimento iniziale, della paura, dell’angoscia di fronte al mistero della vita.