Marcel de Lubac si presentò a casa del conte Alciati abbigliato come se stesse andando al ballo mascherato di Versailles. Aveva un mantello che strusciava il pavimento, dello stesso tessuto nero e lucido della giacca e l’aveva abbottonato in modo da lasciare intravedere i jabot rialzati, anche perché le asole erano un unico ricamo di seta con qualche intarsio d’oro.
Il conte Alciati, invece, aveva appena finito di indossare la sua tunica penitenziale di Santa Caterina e al festoso apparire di Marcel non riuscì a emettere parola. Più che l’abito, del tutto sconveniente per andare in processione per le vie di Vercelli, lo aveva turbato la parrucca boccolosa e incipriata che dava a Marcel l’aria di una cinciallegra. Marcel non gli diede il tempo di protestare, perché, scansandolo con una robusta manata alle spalle, aveva già guadagnato il centro del salotto.
«Voilà, voilà mon ami, tira fuori lo champagne! Dobbiamo brindare à la vie, à l’amour, à l’amitié!»
Il conte, al colmo dell’irritazione, ma anche della tenerezza per ospitare il suo più grande amico in casa sua, non riuscì a far altro che bofonchiare.
«Champagne il Giovedì santo? Non cambierai mai, Marcel!»
«Pourquoi-pas? Un po’ di allegria non ti guasterà».
«Ma non ti vergogni? Cristo sta per morire in croce e tu pensi a brindare? Sei un mostro, Marcel. E poi, come ti sei conciato? Dobbiamo andare in processione tra mezz’ora e io non ho una tunica da darti per nascondere questo carnevale».
«Uffa, Ignazio, la fai sempre tragica!» reagì Marcel, posando la flûte senza aver trovato lo champagne. «Che cos’ha che non va questo vestito? L’ha confezionato apposta per me Madame Grenouilly al Marais!» e posò affettuosamente le mani sulle spalle del conte, così quello dimenticò di colpo la sua rabbia; ma Marcel era già andato a sprofondarsi sulla sua poltrona preferita.