Se n’era andato, finalmente. Delfina, appoggiata al davanzale della finestra, guardava il panorama incantevole del lago e si sentiva invadere da una tranquillità appagata, da un senso di benessere che poteva quasi essere scambiato per felicità. Piazza Motta, barche e barcaioli, bambini che giocavano a rincorrersi, un cane minuscolo che accompagnava il padrone con passettini affrettati, due donne intente a una lunga chiacchiera. E, in mezzo al lago, l’isola con il convento delle Benedettine, un’oasi di pace silenzio e preghiere a contrastare il rumore insensato e la discordia urlante dell’intero mondo. Anche lei si sentiva in pace, perché un capitolo amaro della sua vita si era chiuso, e sopra quel capitolo poteva finalmente apporre la scritta The end, come nei film messicani libanesi iraniani irlandesi e americani. Quei film che andava a vedere al cineforum di Omegna e talvolta a Novara, e mentre lui, Saverio, sbuffava impaziente appena svaniva l’ultima inquadratura alzandosi per andare via in fretta, lei restava lì seduta a veder scorrere i titoli di coda, e leggeva la sfilza di personaggi e interpreti, regista montatori fonici direttori della seconda e terza unità, parrucchieri truccatori costumisti eccetera eccetera fino al responsabile del servizio di catering. Non che le importasse qualcosa dei loro nomi e del loro lavoro e neppure fantasticava sulle loro vite, ma le piaceva che le cose, tutte le cose, si chiudessero in modo ordinato e definitivo, senza strascichi, senza pendenze. (da The end di Margherita Oggero)