Un brano del libro
A Torino io e il mio compagno saltammo sul treno che già si muoveva.
Il treno era vuoto e risuonava agli urti come una botte. Passavamo da uno scompartimento all’altro come per i salottini uguali di un albergo equivoco, abbandonato in fretta dalle ultime coppie irregolari. Sui velluti c’erano ancora le traccie delle scarpe, e piccole incrostazioni di fango secco; per terra anche molti cartigli sgualciti di cioccolatini. Il pensiero che nella notte la locomotiva faticasse tanto per due soli viaggiatori, dopo una prima fatua allegria, ci aveva tolto persino la voglia di scherzare come lo spettacolo di uno spreco inutile e bestiale. Seduti uno davanti all’altro, guardavamo dal finestrino i punti accesi delle case; col fiato che appannava i vetri, quelle luci perdevano a poco a poco ogni vigore, e il mondo si andava spegnendo. Nei nostri cervelli passavano immagini press’a poco identiche. Vedevo delle stanze ben tappezzate dove tumultuavano persone con i volti ilari e i gesti cordiali, rapidi, ampi sotto i lampadari. Attorno a un tavolo quattro giovanotti e una signora giuocavano a poker; io guardavo, da dietro, le carte di uno che in quel momento aveva full d’assi. I rilanci salivano piacevolmente, fatti da voci piene di serenità, nell’atmosfera caratteristica dei giuochi di fine d’anno, quando tutti in un impeto di sublime eroismo vorrebbero perdere. Nel centro di un’altra camera, un ragazzo montava su di una seggiola con un bicchiere in mano, e recitava, fingendosi ispirato, un brindisi che aveva il potere di far scoppiare in risa il fitto uditorio. Quindi lo pigliavano sulle spalle e lo portavano in giro, in trionfo. Con gesto di seminatore egli spandeva il vino a raggiera, sulle teste di tutti, e le gocce cadendo a terra mi pareva dessero un suono secco, di chicchi. I nuovi convenuti, che entravano con le teste affondate dentro le spalle come se avessero ancora il paletot, venivano accolti da grida e battimani (…)