«Era iniziato il decollo. Aurora chiuse gli occhi, si aggrappò ai braccioli del sedile, strinse i denti ed ebbe paura. D’istinto si sarebbe messa a urlare di fermare tutto, perché doveva scendere. Rinunciava, sì, rinunciava a tutti i suoi progetti futuri. In cambio voleva sentire la terra sotto i suoi piedi, la terra vera, polverosa, arida e friabile, quella stessa terra che in molte case della sua città, Benin City, era allo stesso tempo fondamenta e pavimento delle case.
Ma serrò le labbra e si costrinse al silenzio con uno sforzo di volontà che le costò un attimo di vertigine. Un attimo solo. Si riprese e riaprì gli occhi. Intorno a lei la gente si alzava, spalancava gli sportelloni del bagaglio a mano, sfogliava giornali e riviste, scartava pacchetti, percorreva il corridoio stretto per andare alla toilette.
Dagli oblò vide il cielo terso.
L’uomo le sorrise: << Siamo in quota. Puoi slacciarti la cintura. Rilassati>>.
Nei sedili di sinistra scorse le altre tre ragazze che viaggiavano con lei: sembravano riprendersi a poco a poco. Poi fu distratta dalla hostess che passava a offrire bevande. E scelse un succo di ananas.
Ecco. Era fatta. Non poteva più tornare indietro»