Dal saggio introduttivo di Giuseppe Langella
Il tomo che raccoglie, finalmente, l’opera completa di Silvio Ramat, già a colpo d’occhio, reca la testimonianza inequivocabile di una vocazione imperativa, di quelle alle quali si può solo obbedire. E Ramat ha dato ascolto a questa voce, licenziando nell’arco di alcuni decenni, dalle Feste di una città (1959) a Nel bosco sibillino (2005), qualcosa come ventuno libri di poesie, senza contare le svariate altre pubblicate in plaquettes ovvero alla spicciolata su almanacchi, riviste, giornali, antologie, omaggi e simili, né quelle, che ammontano a decine, lasciate nel cassetto […] Parte di questo materiale, inedito o disperso, è confluito, nell’occasione, in due ulteriori raccolte: La ricreazione e Il nome al vento, che rendono ancora più lauto il banchetto offerto al lettore. Non aveva torto, in questo senso, Giovanni Raboni quando, a proposito di tanta facondia, parlava di «poesia continua», di un «bisogno “fisico”», da parte di Ramat, «di riversare via via in immagini e figure il tumultuoso, multiforme susseguirsi delle occasioni esistenziali». Ma l’abbondanza dei frutti lasciati cadere dalla sua inesauribile cornucopia, lungo un tragitto, peraltro, vicino a doppiare la boa del mezzo secolo di assiduo cimento, ha solo un valore indiziario: dice di una dedizione assoluta al culto iniziatico della poesia […].